giovedì 26 gennaio 2023

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Un sardo ventenne piccolo e malformato, che vantava lontane origini albanesi («anche Crispi», diceva, «fu educato in un collegio in Albania»), grazie al suo genio e alla sua tenacia nel 1911 vinse una borsa di studio bandita dal Collegio Carlo Alberto di Torino per consentire a 39 studenti senza mezzi usciti dai Licei del Regno di studiare all’Università di Torino. Con 55 lire in tasca, a cui aggiunse le altre modestissime 70 della borsa mensile, Antonio #Gramsci da Ales, in provincia di Oristano, battendo i denti dal freddo in misere camere d’affitto, riuscì a seguire le lezioni di economisti quali Achille Loria e Luigi Einaudi e del grande storico dell’arte Pietro Toesca, fino a diventare un leader che cambierà il modo di pensare di intere generazioni. In quella città che per un soffio non era riuscita a diventare stabile capitale d’Italia andava sbocciando un orizzonte di alto profilo, politico, ma soprattutto culturale, fra il socialismo di Gramsci e il pensiero liberale di Piero Gobetti. Nel 1917, due anni prima che esca l’articolo di quest’ultimo sulla necessità che la scuola educhi a risolvere i problemi della vita ripensando ai Classici, Gramsci pubblica sulla sua rivista «La città futura» una magnifica pagina intitolata “Contro gli indifferenti”, in cui la stessa idea di Gobetti vibra di intensità morale e civile, pedagogica e politica insieme. Il grande nemico da combattere e sconfiggere è l’indifferenza, quella stessa che un altro diciottenne, Alberto Moravia, nel suo romanzo del 1929 eleggerà a specchio infranto di un mondo ormai appiattito nel conformismo cinico di chi «non prende parte» perché è già costretto ad essere «parte di un tutto» totalitario e senza differenze interne, senza più vita che non sia il bios ammutolito, inerte. La pagina di Gramsci è ancora una grande lezione di etica democratica: Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti. […] L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. […] Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. […] Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? […] Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.